TORNA ALLA CARICA LA SECESSIONE CAMUFFATA

 

Tornano alla carica le truppe dell’autonomia differenziata. La ministra Gelmini risponde prontamente all’appello dei più forti – Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – e assicura che entro metà luglio arriverà una relazione nella commissione bicamerale perché crede che “le istanze che provengono da alcune regioni, di un ‘di più’ di autonomia, debbano comunque trovare una risposta”.

Una mossa chirurgica nella sua precisione. Mentre la sua collega di partito Carfagna si impegna a risolvere la questione dei Livelli essenziali delle prestazioni (con calma certo, entro il 2026), lei alza la posta e rilancia la “secessione camuffata”, come la definisce Lino Patruno nel suo editoriale di oggi sulla Gazzetta del Mezzogiorno.

Dunque, qual è lo scopo? Prendersi quante più competenze possibile, perché al Nord sono più bravi ad amministrare le cose, dice la vulgata. Ma soprattutto, trattenere quante più tasse possibile. Inutile girarci attorno. Il succo dell’intera faccenda è tutto lì.

E mentre l’Istat ci dà un’altra splendida notizia, e cioè che i neonati hanno il 50% di rischio in più di ammalarsi e morire al Sud soprattutto a causa della mancanza o inadeguatezza dei servizi, avanza la macchina autonomista, o secessionista, senza che a nessuno dei suoi fautori venga in mente di parlare di equità, riequilibrio dei divari (pure previsto espressamente dalla Costituzione), Lep o fabbisogni standard.

Per cui la mentalità dominante rimane di fatto sempre la stessa: dare di più a chi ha di più, sulla base di una presunta bravura gestionale, onestà, merito e chi più ne ha più ne metta.

Ma lo sanno bene tutti, nordisti e meridionalisti, che le cose non stanno così. Lo sappiamo bene che i Conti pubblici territoriali dipingono un quadro completamente diverso. Che negli ultimi venti o trent’anni la spesa pubblica al Sud è stata tagliata drasticamente. Che è stato favorito di fatto lo sviluppo – economico, infrastrutturale, sanitario, scolastico, universitario ecc. – del Nord.

Lo sanno tutti che il numero di asili al Sud è infinitamente inferiore che al Nord. Che le reti ferroviarie ad alta velocità (e non) del Nord coprono capillarmente i territori, mentre in una città come Matera – giusto per fare un esempio – c’è la stazione ma non ci sono i treni. Che, in generale, tutto l’asse di sviluppo è spostato da Roma in su. Nel frattempo, l’agricoltura del Sud viene abbandonata a sé stessa, fatta oggetto di tentativi di vero e proprio scippo con i fondi Feasr, lasciata nelle mani dell’industria di trasformazione e distribuzione a trazione nordista, e via discorrendo.

Ma come, vi lamentate? Arriverà il PNRR a segnare d’ora in poi le magnifiche sorti del Sud. Davvero? Forse quel 40% toccato al Sud quando in base ai regolamenti europei sarebbe dovuto essere tra il 60 e il 70%?

Ma a chi vogliono darla a bere?

È sempre più evidente che, in Italia, la faglia della disuguaglianza corre lungo una linea geografica. Il nostro paese può fregiarsi di questo triste primato.

Dunque, se esiste un partito del Nord – partito in senso lato, perché coagula potentati economici, mediatici, amministrativi – allora dovrebbe esistere un partito del Sud. Anche questo in senso più ampio: una grande corrente di rinascita che coinvolga tutti, politici, amministratori, imprenditori, produttori agricoli, artigiani, lavoratori, cittadini. Un meridionalismo che salvi il Sud, l’Italia e persino il Nord, da sé stesso.

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