NON SI TAGLIA IL WELFARE CON L’ACCETTA. CI VOGLIONO CRESCITA E LAVORO DIGNITOSO

 

Come ogni anno l’OCSE, l’organizzazione dei paesi ricchi, ha pubblicato il suo rapporto sulle pensioni nei diversi Stati membri: “Pensions at a glance”. Quest’anno il documento cade particolarmente a fagiolo perché sono giorni di dibattito e tensioni a livello istituzionale, di governo e con i sindacati.

Il rapporto ha avuto parecchia eco sui giornali. Molti di loro, tra le righe ma nemmeno tanto, mettono in evidenza l’insostenibilità dell’attuale sistema pensionistico che andrebbe a tutto discapito dei “giovani”. Benefit generosi per gli attuali pensionati e baby pensionati, e un destino di lavoro anche in vecchiaia e trattamenti previdenziali non dignitosi per chi lavora oggi. Un dato dell’OCSE, soprattutto, viene brandito per influenzare, diciamo così, l’opinione pubblica su questo tema. La spesa italiana per le pensioni sarebbe tra le più alte tra i paesi dell’Organizzazione: il 15,4% del PIL nel 2019. Che cosa se ne deduce a giudicare dai titoloni? Va ridotta la spesa e aumentata l’età pensionabile per non costringere le persone a lavorare fino a 71 anni (come prevede l’OCSE).

Io però preferisco una lettura meno ‘ortodossa’, che cerchi di interpretare i numeri dell’OCSE da una prospettiva più rispettosa del welfare state, quello che ha consentito la crescita dei paesi europei dal dopoguerra in poi.

Innanzitutto il dato sulla spesa pensionistica complessiva italiana è contestato e contestabile, dal momento che – come leggiamo su altre testate – “calcolerebbe anche la spesa sociale per l’assistenza”. Inoltre, e questo è un fatto forse ancor più importante, l’Italia, a differenza di paesi come la Germania, “paga pensioni lorde a cui poi vanno sottratte le normali imposte sul reddito”.

Risultato: il dato reale della spesa previdenziale scende almeno “al 12% del PIL”.

Ma il punto cruciale, forse, risiede da un’altra parte. E ha che fare anche con il PIL. Ricordiamo, infatti, che il nostro paese è tra quelli che registrano da anni la crescita più asfittica, pandemia o non pandemia. Se la quota del 15 o 12% viene calcolata su un PIL robusto, poco male. Ma così non è. Le cause di questa impasse della nostra economia sono diverse e non starò qui a elencarle, ma sicuramente un paese che stimola il suo tessuto produttivo e aiuta le sue imprese a crescere in un contesto sano avrà molti meno motivi di temere l’impatto del sistema previdenziale.

Peraltro, sempre l’OCSE ci dice anche che il reddito degli over 65 è simile a quello della popolazione totale, ma inferiore di circa il 12% rispetto agli altri paesi OCSE e del 15% rispetto all’Italia di vent’anni fa.

Dunque, alla base, vi è un problema di reddito complessivo che riguarda il nostro paese, e che si ricollega almeno in parte alla crescita del PIL di cui dicevo. E, come spesso accade, si ritorna alla questione del lavoro. Nel corso degli anni esso è stato sempre più precarizzato e peggio retribuito. Dunque, questo ha portato da un lato ad abbassare la natalità (come faccio a fare figli se non sono certo di garantirgli un futuro?), dall’altro a erodere quel patto tra generazioni che ha costituito fino a qualche anno fa la base della nostra tenuta socioeconomica: i contributi che verso oggi servono per pagare le pensioni di chi ha già smesso di lavorare.

L’idea di lavorare fino alla vecchiaia è assurda e va contrastata, così come va contrastato il taglio del sistema previdenziale.

Prima di puntare il dito su ‘baby pensionati’ o prestazioni troppo generose, bisognerebbe attuare politiche serie per rilanciare il lavoro, un lavoro dignitoso e stabile, l’impresa, la natalità. Senza contare che, soprattutto al Sud, gli anziani hanno costituito per molto tempo una sorta di ammortizzatore sociale anche per i giovani.

Se si pensa di tagliare con l’accetta la spesa pubblica per raggranellare qualche miliardo in più, allora si condanna il paese alla paralisi e a quell'”inverno demografico” di cui parlava qualche giorno fa l’ ISTAT.

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