IN VISITA AL LOMBROSO: ECCO QUELLO CHE HO VISTO!

 

Oggi sono andato a Torino. Ho passeggiato all’interno del Museo Lombroso.

Con me in visita una piccola delegazione di sindaci, studiosi, esponenti del Comitato No Lombroso.

L’impressione che ho avuto ha confermato ciò che già sapevo. Il Museo non chiarisce a dovere le falsità di Cesare Lombroso e rimane in piedi la figura di un grande mistificatore, che è riuscito a spacciarsi per “padre della criminologia” e che ancora viene percepito come tale da tante persone.

Mentre camminavo per quelle sale piene di poveri teschi senza nome e senza passato mi sono chiesto che sensazioni possono suscitare in un bambino delle medie o in un ragazzo delle superiori.

Teschi non schedati o segnati con un “brigante”, una teca con vasetti di mais sotto spirito per dimostrare che Lombroso si interessò al problema di come curare la pellagra, tesi anche questa sconfessata dal professor Giuseppe Gangemi. E poi ancora teschi, calchi in gesso di volti, di mani, tachiantopometri per misurare le varie parti umane, pugnali e altri “corpi di reato”, ceramiche e altri oggetti che rappresentano il mondo da incubo di Lombroso (forse avrebbe dovuto fare un passaggio sul lettino del contemporaneo Sigmund Freud).

E alla fine, una ricostruzione del suo studio dove il “padre della criminologia”, in bella mostra sulla scrivania, teneva il teschio di Giuseppe Villella.

Nel Museo il vero teschio di Villella si trova poco prima, in una saletta in cui si spiega come Lombroso arrivò all’”illuminazione” dell’atavismo criminale (dei meridionali) osservando una anomalia, una strana fossetta mediana occipitale.

Nella sala/studio di Lombroso una voce fuori campo che simula una specie di flusso di coscienza di Lombroso ripercorre la sua vita di “scienziato” e alla fine ammette di aver commesso tanti errori, dalla teoria delle due razze a quella sull’atavismo criminale. E dice che comunque è stato, nel caso ce lo fossimo dimenticato, “il padre della criminologia” e ha posto “domande su cui ancora la scienza si interroga: quanto influisce la biologia e quanto l’ambiente sul destino di una persona?”

Insomma di fatto si autoassolve, mettendosi in pratica sullo stesso piano di Charles Darwin.

E dunque alla fine al visitatore poco informato cosa rimane? Una serie di teschi senza nome, un percorso assolutamente carente dal punto di vista storico e scientifico e la memoria di una figura grottesca ma in buona fede.

Non si contestualizza né storicamente né scientificamente la figura di Lombroso. Non si dice in nessun punto che fu sbugiardato dai suoi contemporanei, come Verga e Mantegazza. Anzi, viene presentato come un luminare dell’epoca. Lui che si fondò la sua rivista per poter propagare le sue assurde teorie. Non si dice che il suo metodo era riconosciuto come non scientifico già allora. Perché già allora circolavano i modi di procedere logicamente e scientificamente di Darwin, Weber ed Emile Durkheim. Metodi tutti ignorati bellamente da Lombroso perché non li capì, o non li volle capire.

Non si dice che Andrea Verga disse a Lombroso: “Guarda che la tua teoria dell’atavismo sulla base della fossetta nel cranio fa acqua da tutte le parti”. E Lombroso: “Va bene, se mi porti un cranio uguale in un uomo onesto sono disposto a rivedere le mie teorie”. Verga lo trovò, tre anni dopo, ma Lombroso si diede per disperso, e non rispose mai. Per questo motivo, tra gli altri, fu cacciato dalla Società di Antropologia.

Non si dice che Lombroso eliminò il caso del bergamasco Verzeni perché faceva crollare la sua teoria dell’atavismo meridionale.

Verzeni è scomparso dalle mappe del Museo.

Però il visitatore, dopo questa carrellata di approssimazioni e reperti da Grand Guignol, si sorbisce il discorsetto moralista di questo fantasma di Lombroso che confessa post mortem.

Ma che razza di Museo scientifico è questo?

Ma che razza di Museo storico è questo?

Ma che razza di Museo è questo?

Un’ultima nota di colore.

La direzione del Museo mi aspettava da molti giorni. Ho avvisato preventivamente del mio arrivo insieme a questa piccola delegazione. La direzione mi ha accolto con un’aria non propriamente festante. E questo posso pure capirlo. Ma nessuno di loro si è curato di accompagnarmi nella visita per spiegarmi il senso del Museo. Invece, hanno seguito me e gli altri ‘a distanza’ per sincerarsi che non uscissimo dal seminato. E infatti hanno concesso a denti stretti il permesso di fare qualche foto. “Ma non postate le foto dei teschi sui social per rispetto della loro dignità”. Quale dignità? Quella che mostrò Lombroso nei loro confronti? E quando ho provato a fare un breve video per riprendere il teschio di Villella e spiegare la fossetta, mi hanno fermato senza troppi complimenti, nonostante gli avessi spiegato che lo facevo in quanto senatore come documento da tenere agli atti. Hanno risposto che non avevo chiesto prima il permesso.

D’accordo. Non posterò il video. Ma la foto del cranio di Villella, quella sì, caro direttore, la voglio postare. Come sapeva bene anche Amleto, un teschio può raccontare tante cose.

E questo racconta centocinquant’anni di bugie, cominciate quando un signore di Verona decise di andare nella Torino centro del potere nordista a cercar fortuna.

Il mio impegno in Parlamento per il rispetto della dignità e dell’identità meridionale sarà più forte di prima!

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